Il trionfo agli oscar della “Grande Bellezza” di Sorrentino è anche, e forse soprattuto, il trionfo di una Capitale che torna al centro della scena con gli occhi di mezzo mondo puntati su di lei.
Città eterna, come eterno è il suo fascino e i suoi malanni.
Dal Gianicolo, dove si apre il film, alle splendide terrazze che ospitano le feste dei protagonisti, dal giardino di Villa Medici, in cui si svolge la passeggiata notturna di Jep fino all'Eur, Sorrentino racconta la grande bellezza della città più bella del mondo.
A nessun personaggio di questa Grande bellezza è dato di evadere, e anche chi fugge lo fa per morte sicura o per sparizione improvvisa.
Le figure di Sorrentino non hanno vita propria, sono burattini comandati da mangiafuoco, eterodiretti da una scrittura tirannica, verticale, sempre giudicante.
Non hanno spazio di manovra, sembrano non respirare.
Il domatore Jep Gambardella li doma tutti dispensando frusta e carota.
La crisi di cui si dice portatore è senza convinzione, come i trenini delle sue feste, non porta da nessuna parte.
Ma questa condanna sconfortata che cade su tutto e tutti, alla fine è assolutoria, e il ritratto di questa società decadente che si nasconde dentro i palazzi romani, mai visibile agli occhi di un comune mortale, sempre staccata dalla realtà, diventa solamente pittoresca.
(di qua e di la)
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